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Il panorama che caratterizza le ricerche che si pongono l’obiettivo di studiare quale psicoterapia efficace si dimostra tale è attualmente eccessivamente complicato; ancora, la “moda” imposta dai cosiddetti “Trattamenti supportati empiricamente” circa il tentativo, sulla base di criteri specifici, di dar vita a delle linee guida sui trattamenti di elezione per un’ampia gamma di disturbi sembra allontanare ulteriormente la distanza che esiste tra ricerca e pratica clinica.
Analizzando infatti ogni singolo suggerimento proposto dagli EST è possibile notare come essi siano poco spendibili all’interno della pratica psicoterapeutica.
Vediamo nel dettaglio i criteri che rendono una psicoterapia efficace:
I lati oscuri degli EST possono continuare, se ci si sofferma su un altro aspetto: in relazione agli attuali criteri, è stato stabilito che affinché un trattamento efficace sia considerato tale è sufficiente che sia in grado di mostrare la sua efficacia confrontandosi con la condizione di non trattamento (per esempio la lista di attesa). Usando questo pericoloso criterio, “virtualmente ogni intervento è superiore ad un non-trattamento, specialmente per i disturbi d’ansia e dell’umore” (p. 417, Herbert, 2003), e quindi anche le preghiere ed il placebo possono essere inclusi nella lista. A ciò si aggiungono altri due elementi:
Perfino il sistema sanitario sembra accogliere il filone inaugurato dagli EST per cui solo alcune forme di psicoterapia vengono finanziate con la conseguenza implicita che il servizio sanitario possa indirizzare gli psicoterapeuti ad avvalersi per specifiche diagnosi di determinati approcci al fine di ottenere rimborsi.
Un interessante spunto metodologico proviene da quanto affermato da Nardone:
«Proponiamo dunque di tornare ad un approccio clinicamente ed ecologicamente valido nella ricerca in psicoterapia, dove alcuni pazienti (con la stessa diagnosi da DSM) possano seguire differenti trattamenti “attivi” (senza controllo, placebo o procedure con liste di attesa), con la misurazione dei differenti miglioramenti utilizzando non solo i test tradizionali (troppo spesso basati sulla CBT), ma anche la cosiddetta “tecnica della scala” (de Jong & Berg, 2001; Nardone, 1996; Nardone & Watzlawick, 1993, 2004) per rilevare la soddisfazione congiunta tra terapeuta e paziente relativamente ai risultati terapeutici. Questa tecnica è molto semplice da gestire e consiste nel dare una valutazione numerica alla situazione del paziente. Ciò può trasmetterci dati chiari circa le convergenti o divergenti opinioni relative alla psicoterapia dai punti di vista del cliente e del professionista clinico (Nardone, 1996; Nardone & Watzlawick, 1993, 2004)».
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