La preoccupazione altro non è che la previsione di un possibile rischio. Sembra essere anche funzionale, perché ci consente di produrre scenari possibili. C’è poi anche chi dice che fa bene, come lo psicologo Graham Davey, dell’Università del Sussex, in quanto chi è preoccupato può trovare un modo costruttivo di reagire a situazione problematiche poiché le prestazioni migliorano e ridurre così l’ansia.
Preoccuparci può essere utile anche a spingerci verso l’azione, ad esempio i fumatori possono convincersi ad abbandonare la sigaretta in misura maggiore se si preoccupano dei relativi rischi.
Ma è anche vero che la preoccupazione cronica causa un’eccessiva stimolazione delle arre cerebrali che elaborano emozioni e paura e questo eccesso di vigilanza può condurre a problemi cardiovascolari.
Anche se è difficile tracciare con precisione un confine tra sana preoccupazione e apprensione malsana, lo psicologo Michel Dugas ama rappresentare la preoccupazione come una curva a campana, nella quale i livelli moderati sono associati a un migliore funzionamento, mentre quelli eccessivi sono legati ad un peggioramento delle prestazioni.
Capire i modi in cui l’eccesso di preoccupazione (aspetto legato all’elaborazione cognitiva) si collega all’ansia (elemento emotivo) e come influenza le nostre funzioni mentali e fisiche può aiutarci ad affrontare meglio le difficoltà.
Inevitabile ricordare che finché la preoccupazione è gestibile, siamo in una situazione in cui è possibile trarne un vantaggio, perché magari siamo più attenti ai dettagli o facciamo di più e meglio. Se invece, continueremo ad affacciarci su scenari apocalittici, ostacoleremo la nostra capacità di leggere la realtà e pensare al futuro, e continueremo così a vivere esperienze stressanti.
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