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Davide Algeri – Psicologo Milano
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Soffri per amore? Come uscirne
Troppo spesso innamorarsi vuol dire soffrire: ma l’amore deve per forza implicare il dolore? Ne abbiamo parlato con lo psicologo Davide Algeri che ci ha fornito un punto di vista insolito.
A cura di Antonella Marchisella
Innamorarsi è di per sé una condizione piacevole, ma spesso vuol dire anche ritrovarsi a soffrire come in una vera e propria gabbia, quando il pensiero fisso “dell’altro” non ci abbandona mai e continuiamo a tormentarci. C’è da dire che spesso quello che crediamo essere un innamoramento è solo il frutto di impressioni, situazioni infantili mal risolte che ci portano da adulti a legami affettivi distorti. Non è raro scambiare un attaccamento nevrotico per amore.
Del resto, provando a sbirciare le definizioni di “innamoramento” su un certo numero di dizionari, nessuno di questi riporta un significato esaustivamente comprensibile dello stato di “innamorato”, generalmente riportato come “chi è preso da amore per qualcuno. Chi ispira amore, chi manifesta amore, chi è preso da un sentimento d’ amore per qualcuno” e questa vaghezza già la dice lunga sul fatto che non ne sappiamo granché sul nostro stato di “innamorati”.
Da qui, il passo al cosiddetto “pensiero fisso” è breve. Il pensiero fisso “dell’altro” ci fa sentire “ingabbiati” e in questi casi per definire lo stato in cui si trova la persona che sta soffrendo, potremmo usare la “metafora del carcerato”.
Per saperne di più abbiamo intervistato lo psicologo e psicoterapeuta Davide Algeri, che ha affermato: “E’ come se si stesse rinchiusi in una condizione di prigionia, dove l’altro tiene in ostaggio il proprio cuore e il proprio pensiero, non concedendo alcuna via di fuga. ll pensiero è sempre presente, giorno dopo giorno, fa male e più si cerca in tutti i modi di scacciarlo, di dimenticare, di distrarsi, di non pensarci, più questo torna alla mente, in modo invasivo e fastidioso. Così il “prigioniero”, per quanto cercherà di liberarsi, ribellandosi, urlando, alla fine rimarrà chiuso nella sua “cella”, dove ogni sforzo di “rompere le catene” o di “piegare le sbarre” per uscire, risulterà vano, contribuendo solo a peggiorare e a confermare altresì la propria condizione” .
Dott. Algeri, come si può uscire da questa condizione?
Spesso chi ha un problema non può risolverlo, se cerca di farlo rimanendo sullo stesso piano del problema e per questo, in questi casi, è utile riuscire a vederlo da fuori, anche con l’aiuto di un terapeuta. Possiamo fare l’esempio dell’incubo: durante un incubo si può correre, strillare, cadere, nascondersi, ma nessun cambiamento da un comportamento ad un altro può por fine l’incubo stesso (cambiamento1); l’unico modo di uscire fuori da esso è destarsi (cambiamento2). L’essere desti però non fa più parte del sogno e implica un cambiamento ad uno stato completamente diverso.

Come possiamo guardarci dall’esterno?
Per far ciò diventa utile provare letteralmente a guardarsi nella propria condizione di prigioniero, ogni giorno per un tempo definito, e rassegnandosi al proprio destino di ergastolani, per tutta la vita, almeno fino a prova contraria. Guardarsi dall’esterno, aiuterà infatti a prendere le distanze e a rivalutare la propria posizione all’interno di questa dinamica, riuscendo a “rompere la catena” e ad aprire la cella nella quale fino a quel momento eravamo rimasti bloccati.
Fonte: GirlPower
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