Alla base dell’ingratitudine
L’ingratitudine è all’origine della metafora, intesa in senso laico, della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre.
Una ragazzina di 9 anni, durante un laboratorio di psico-animazione incentrato sul tema, ha scritto: <<Molto ingrati sono stati Adamo ed Eva. Al loro posto io, dopo che il serpente faceva la sua tentazione, avrei chiamato Dio e gli avrei detto “Signore, qui c’è un buffo serpente che dice che se mangiamo dell’albero della conoscenza del Bene e del Male non moriremo, ma diventeremo come Dio. Tu che ne dici?”. E avrei sentito cosa rispondeva Lui. Mi sarebbe sembrato più giusto ed educato, visto che lui aveva messo a disposizione di tutti e due il Paradiso terrestre e tutti gli animali, pure quelli feroci […]. Forse, però, loro si saranno sentiti intimiditi per il fatto che Dio aveva davvero offerto loro tutto e troppo>>.
Melanie Klein, in Invidia e gratitudine (1957), scrive che l’invidia è una forza primordiale, “costituzionale”, strettamente connessa alla bramosia orale, che ha come primo oggetto il “seno che nutre”. Un’emozione, l’invidia, che si rafforza nella nostalgia della completezza, esperita durante lo stato prenatale, e nell’intensa “angoscia persecutoria messa in moto dalla nascita”. Secondo la Klein, nemmeno un allattamento felice elimina completamente la frustrazione che deriva dalla perdita dell’unità prenatale. “La stessa facilità con la quale il latte fluisce -anche .se il bambino se ne sente gratificato- è fonte di invidia, in quanto al bambino, questo dono, sembra qualcosa di irraggiungibile”. Quindi, non è la frustrazione ad innescare l’invidia, nemmeno per la psicanalista, bensì la sensazione di irraggiungibilità, il senso di inadeguatezza che invade il neonato di fronte al seno che contiene in sè tutte le cose buone. Un seno invidiato perchè possiede tutto ciò che è bene, ma anche “avaro e meschino” perchè lo tiene per sè.
L’invidia, quindi, ha a che fare con il lato oscuro, con quella fantasia distruttiva che affonda le sue radici dentro di noi fin dalla nascita – quello che Freud chiama istinto di morte, contrapponendolo all’istinto di vita- e che può manifestarsi come invidia o avidità. Entrambe belve, aspre e forti, che possono condurre all’incapacità di provare amore e gratitudine (invidia), oppure alla irrazionale distruzione della propria fonte di vita (avidità).
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Se la psicologia studia l’invidia dei soggetti, la sociologia la studia nella prospettiva della società. Osservando i comportamenti di massa, si può notare come la modernità sia sempre maggiormente ossessionata dal demone dell’avere. L’invidia d oggi non è più quella di Antonio Salieri, settecentesco compositore di successo corroso dall’invidia per il genio assoluto di Mozart. Nel dramma teatrale: Mozart e Salieri, il rancore del secondo per il talento innato del primo si trasforma e s’ingigantisce fino a diventare odio e desiderio di morte per il collega compositore.
Da quando Max Weber ha scritto che la precondizione per l’avvento del capitalismo è stata l’etica protestante, e quindi la concezione, totalmente calvinista, che la ricchezza materiale fosse un segno di grazia divina, in Occidente, almeno a livello di massa, l’invidia dell’essere ha lasciato il posto all’invidia dell’avere, soprattutto del denaro, che dà accesso a tutto:bellezza, piacere, potere. La modernità ha sdoganato l’invidia, trasformandola in un sentimento quasi onorevole, mascherandola nella giusta competizione. Perché il denaro, se lo agguanti, lava ogni colpa e garantisce uno statuto di intangibilità.
E’ l’eccellenza dell’ingratitudine, un sordo, rancoroso rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente) che coglie come un’autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poichè tale condizione lo pone in evidente “debito di riconoscenza” nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli “dovrebbe” spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto, al punto di arrivare a dimenticarlo o negarlo o sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il Benefattore stesso in una persona da allontanare, da dimenticare, se non addirittura da penalizzare e calunniare.
Adesso che abbiamo una lista sia delle diverse tipologie di Benefattore, sia delle tipologie di Beneficato, esercitiamoci, per una settimana, a compiere almeno un gesto gentile al giorno.
Teniamo un diario di bordo, e annotiamo, giornalmente:
Se la risposta è SI’, allora avanti così. Se invece ci diamo una risposta negativa, forse è il caso di rivedere bene le motivazioni profonde che ci hanno portato a compiere quel gesto di benevolenza. Era un gesto davvero gratuito, o ci aspettavamo qualcosa in cambio? E da chi? Dall’altro, o da noi stessi?
La gratitudine è l’emozione che ci permette di poter apprezzare la vita così com’è. Ci rende capaci di essere Beneficati d’amore, ed è all’origine della condizione che ci rende felici. Quindi, pensate ad una persona a cui tenete particolarmente, e/o che ha avuto un’influenza positiva sulla vostra vita. Riflettete sull’importanza che questa relazione ha rivestito in termini di significato, di momenti piacevoli, di apprendimento… Quali sono i ricordi ad essa associati? quali caratteristiche particolari potete attribuire a questa persona? Scrivetele una lettera per comunicarle tutti questi aspetti per voi importanti. Non date la lettera la vostro benefattore: conservatela in un luogo che conoscete solo voi, e rileggetela quando ne avete voglia!
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