
Intelligenza artificiale per i problemi personali: come evitare la trappola del pilota automatico
14 Ottobre 2025“Quando l’impulso diventa lama”.
“Il problema non è la coltellata, è tutto ciò che l’ha resa inevitabile.”
Il paradosso sta qui: più tentiamo di scacciare un pensiero proibito, più lo nutriamo. L’impulso ad accoltellare — spaventoso già nel nome — non nasce all’improvviso come un fulmine cieco: sedimenta, si traveste, cerca simboli su cui caricarsi. E, se non lo sappiamo leggere, esplode.
Partiamo dall’episodio che ha scosso Milano: l’aggressione di piazza Gae Aulenti del 3 novembre 2025, in cui una manager quarantenne è stata colpita alle spalle da un uomo poi identificato in Vincenzo Lanni. Nelle ore successive, l’uomo ha confessato, dichiarando di aver scelto la vittima “a caso” e il luogo perché “simbolo del potere economico”; ha collegato il gesto a un risentimento antico per un licenziamento, forse un trauma irrisolto, e all’allontanamento da una comunità nei giorni precedenti. La dinamica e le frasi riferite durante l’interrogatorio sono riportate da più testate, tra cui la Repubblica (4 novembre), Il Giorno e agenzie come Adnkronos; inoltre sono stati ricordati precedenti accoltellamenti del 2015 e l’identificazione di ieri grazie a un familiare. Il messaggio che conviene trattenere è semplice: non è la persona a essere stata scelta, ma ciò che rappresentava.
Questo, in ottica strategica, ci offre già la prima leva: quando un gesto cerca un simbolo, è al simbolo che dobbiamo togliere potere.
Cosa “fa funzionare” l’impulso violento
Nella logica strategica, non basta chiedersi perché un problema è nato; occorre capire come lo stiamo senza saperlo alimentando con le nostre soluzioni abituali. Riguardo gli impulsi aggressivi, le tentate soluzioni più frequenti sono quattro:
- Evitare, evitare, evitare. “Se non vedo il coltello, non esiste.” L’evitamento radicale — di luoghi, persone, idee, notizie — produce sollievo a breve e ipersensibilità a medio termine. Ogni rinuncia dilata l’ansia: il mondo si restringe e l’ossessione cresce.
- Ipercontrollo cognitivo. “Pensare di non pensare, equivale a pensare”, dicevano gli antichi. Chi pensa “Non devo pensarlo” innesca la trappola dell’elefante rosa: più proibisci un pensiero, più questo torna e senti il desiderio di trasgredire. Si entra in un loop ossessivo dove si analizza ogni microsegnale di rabbia per “spezzarlo”, e facendo così lo si accende.
- Razionalizzazione giustificante. “Non è contro quella persona, è contro ciò che rappresenta.” Quando una persona simbolizza la vittima, la de-umanizza; il passaggio dal pensiero all’azione si accorcia.
Queste soluzioni disfunzionali, sommate, costruiscono il circolo vizioso: più evito/controllo/giustifico, più la mente si addestra all’azione.
La dinamica invisibile che si autoalimenta
Ogni comportamento deriva da una percezione (il mondo è ostile/ingiusto) genera la reazione (mi difendo attaccando o mi vendico) che conferma la percezione (vedi? mi provocano / mi ignorano), e il giro riparte. Questo si traduce nella profezia che si autoavvera. In alcuni casi si aggiunge:
- Risentimento congelato: un torto vissuto sulla propria pelle (un licenziamento, un’umiliazione) resta lì, a “maturare” e ad ingigantirsi, nella misura in cui non lo si elabora. Più passa il tempo, più pretende riparazione. Le cronache milanesi parlano di un risentimento decennale: informazione clinicamente rilevante perché mostra cristallizzazione del rancore. (Leggi articolo su Il Giorno)
- Scelta del simbolo: non colpisco Tizio, colpisco “la finanza, le donne, l’ingiustizia”. Il simbolo trasforma l’atto in “missione” e trasforma la vittima in un oggetto, senza emozioni, spersonalizzandola.
- Isolamento: meno contatti reali, più rumore interno. L’isolamento porta ad alimentare le fantasie di vendetta che rimbalzano internamente senza contraddittorio, senza essere messe in discussione. Ciò amplifica il rischio che si verifichi quello che è accaduto.
“Il rancore è come una colla: più la tiri, più si attacca.”
I profili dietro l’impulso ad accoltellare (senza stigmatizzare)
Non esiste una sola “personalità da coltellata”. Esistono vie diverse che conducono allo stesso bivio. Nella clinica, osserviamo (in modo non esclusivo né diagnostico):
- Il rancoroso identitario: vive una ferita (fallimento, esclusione) come marchio. Potrebbe cercare un atto che possa fornire una rivalsa. Spesso usa il linguaggio del “far vedere”, del “rimettere le cose a posto”.
- Il proiettivo–paranoide: attribuisce intenzioni malevole globali (“loro mi perseguitano”).
- Il narcisista ferito: autoimmagine grandiosa schiantata. L’impulso può nascere dal desiderio di ripristinare il potere.
- L’antisociale episodico: ha una bassa soglia di inibizione e familiarità con l’uso strumentale della violenza.
- Quadri psicopatologici maggiori: deliri tematici, compromissione di realtà, comorbidità con uso di sostanze.
- Isolamento e incubazione: in questo caso non è una diagnosi, ma un amplificatore. Meno relazioni = meno feedback = più rischio di costruire una trama privata dove l’atto appare coerente.
È fondamentale ricordare che la stragrande maggioranza delle persone con sofferenza psichica non è violenta e risponde bene a cura e protezione. Gli episodi che finiscono in cronaca sono eccezioni; proprio per questo vanno gestiti senza alimentare stigma.
Milano, il “simbolo” e la paura che resta
Quando un’aggressione avviene in luogo iconico (Gae Aulenti, Unicredit Tower), la città intera si sente “colpita”. Le testimonianze dei giorni successivi parlano di una paura che è normale sperimentare sul rientro serale, di telefonate fino a casa, di segnalazioni frequenti in zona: la sicurezza, nel vissuto urbano, è anche relazione e comunicazione. (Leggi articolo su Corriere Milano)
L’episodio di Milano ha riacceso la richiesta di una “terza via” per contrastare fenomeni come l’impulso ad accoltellare: servizi continuativi per soggetti a rischio elevato, ponti tra cure, alloggi protetti e controllo giuridico, così che né la strada né il carcere siano gli unici contenitori disponibili. È tema di politiche pubbliche: allineare sanità, magistratura, servizi sociali e forze dell’ordine.
Una lettura finale “spiazzante”
L’impulso ad accoltellare è una metafora che si fa mano: grida “io esisto” dove l’identità è crollata. Siamo sempre sullo stesso punto, anche se in questo caso in una forma più estrema, ovvero sulla necessità di essere visti, per non risultare trasparenti. Con questo non voglio giustificare un comportamento, ma al contrario, farvi fermare e stimolare su quanto questa società ci sta portando a non darsi tempo per pensare, a perdere i valori, a uniformarci, facendoci perdere l’identità. Con l’effetto che poi ciò ci porta all’emarginazione interiore.
Il rimedio, allora, non è fare la guerra ai pensieri, né santificare il controllo: è smontare la macchina che li arma.
“Ciò che pensi non è ciò che sei; ciò che alleni, sì.”
Se alleni l’evitamento, alleni la paura. Se alleni la vendetta in fantasia, alleni la lama. Se alleni l’interruzione — il posticipo, la sostituzione, la scrittura a dose — alleni la libertà.
E alla città resta un compito: trasformare il simbolo. Dove qualcuno ha voluto vedere un “tempio del potere”, rispondiamo con spazi sicuri, sguardi connessi, servizi che tengono. La vera contro–coltellata è questa: un luogo che rimane vivo anche dopo la ferita.
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