I risultati raggiunti dalla stimolazione cognitivo comportamentale, come ogni modello clinico di intervento, sono frutto di un percorso di validazione scientifica piuttosto lungo che ha visto negli studi neurologici e nelle ricerche sperimentali di tipo quantitativo e qualitativo le metodologie che hanno permesso di evidenziarne le notevoli potenzialità.
Nello specifico gli studi neurologici condotti per verificare gli effetti della riabilitazione cognitiva comportamentale hanno messo in evidenza che sia a causa di distruzioni corticali che di stimolazioni provenienti dall’ambiente esterno, si assiste ad una riorganizzazione cerebrale. Più precisamente è come se la ristrutturazione funzionale del cervello, provocata da una qualche lesione, possa aver luogo solo se l’ambiente risulta in grado di fornire un’adeguata stimolazione volta a compensare i disturbi cognitivi, comportamentali e sensoriali causati dalla lesione (Denes, Pizzamiglio, 1990). E’ stato inoltre individuato nella plasticità quel peculiare meccanismo di compensazione che consente di controbilanciare, nel corso del tempo, l’impoverimento neuronale.
Sulla base di queste premesse, poiché nel settore delle demenze non è possibile contare sul proliferare delle fibre nervose e sinaptiche, per un lungo periodo la comunità medica e scientifica escludeva a priori la possibilità di riattivazione cognitiva per i soggetti con demenza, poiché si pensava che questa patologia ostacolasse proprio quei meccanismi di adattamento cerebrale alla base delle tecniche di stimolazione. Studi successivi, hanno però messo in evidenza come nei soggetti con AD in alcune aree cerebrali, quali l’ippocampo, si assista alla crescita di cellule perfettamente in grado di moltiplicarsi se opportunamente stimolate (Eriksson, 1998). Inoltre, asse portante a conferma della riattivazione cognitiva in soggetti con AD è costituito dal fenomeno della ridondanza per il quale ogni funzione può essere messa in atto da diversi circuiti neuronali; dunque, nel caso in cui il circuito principale venga compromesso, possono entrarne in gioco altri. Ne consegue che maggiori saranno i numeri e la forza delle connessioni interneuronali attivate tramite l’esercitazione e la ripetizione, maggiori saranno le strategie adottate dal soggetto per esercitare una data abilità (Boccardi M., 2002). Le attività svolte durante le sedute di stimolazione cognitiva comportamentale forniscono pertanto all’individuo un repertorio di competenze, abilità e strategie in grado di compensare il declino cognitivo connesso alla malattia di Alzheimer. Rispetto all’efficacia di tali trattamenti, studi sperimentali di tipo sia quantitativo che qualitativo, hanno messo in evidenza che i soggetti affetti da AD nonostante non manifestino cambiamenti positivi nelle prestazioni a prove standardizzate di tipo cognitivo, hanno, invece, mostrato comportamenti caratterizzati da autonomia e adeguatezza ai contesti di vita quotidiana; risultano, inoltre, in grado di portare a termine un compito affidatogli e di utilizzare strategie e modalità comunicative più efficaci e soddisfacenti. Tali miglioramenti vengono anche confermati da parte dei caregiver i quali riconoscono nel proprio familiare un incremento di comportamenti e modalità relazionali positive in termini di attenzione, reattività, autonomia e iniziativa (Selwood et al., 2001). Occorre però precisare che gli esiti positivi si riscontrano in risposta a trattamenti condotti nelle fasi iniziali della malattia e in risposta a stimolazioni collocate a vari livelli di intensità e rivolte a più abilità cognitive e comportamentali (Passafiume, Di Giacomo D., 2006). A partire dai risultati delle ricerche sperimentali e dalla pratica clinica e sulla base delle caratteristiche dei disturbi cognitivi, delle capacità di controllo e del comportamento manifestato dal paziente, numerose sono le tecniche di intervento mirate che sono state sviluppate. Nella maggior parte dei casi tali interventi sono contraddistinti dall’orientamento alla stimolazione del soggetto con Alzheimer, in particolar modo su una specifica competenza cognitivo-intellettiva, ritenuta dal clinico la competenza fulcro, vale a dire quella peculiare abilità che se stimolata è in grado di contrastare il deterioramento globale.
Al di là delle differenze che intercorrono fra un trattamento riabilitativo e l’altro, sempre più numerosi sono gli studiosi che ritengono necessario operare su un versante multidimensionale e coinvolgere nel processo riabilitativo più aspetti della vita del soggetto che non afferiscono soltanto all’area prettamente clinica ma anche a quella familiare e sociale, poiché il recupero delle funzioni motorie e cognitive non rappresenta spesso un indice esaustivo dell’efficacia e della qualità della riabilitazione (Passafiume, Di Giacomo D., 2006). E’ necessario precisare, infatti, che il miglioramento, che si raggiunge nella maggior parte dei casi con la somministrazione di trattamenti rieducativi e riabilitativi, non si verifica secondo una logica causale diretta e meccanicistica, piuttosto, il buon esito di una riabilitazione è frutto di un progetto pensato ed adattato alle peculiarità del paziente, alla gravità del danno cerebrale, al livello di coinvolgimento del sistema nervoso (centrale o periferico) nonché alle dimensioni prettamente cognitive interessate (Passafiume, Di Giacomo D., 2006). Allo scopo di determinare sia il livello di gravità della compromissione cognitiva che le abilità residue da sostenere e potenziare risulta di fondamentale importanza una valutazione neuropsicologica dettagliata. I principali elementi base della programmazione del protocollo di stimolazione cognitiva e comportamentale che devono essere approfonditi sono pertanto due: le caratteristiche neuropsicologiche del paziente ed il livello di intensità della stimolazione da somministrare. Per quanto riguarda il primo aspetto, la creazione di un programma specifico necessita di una conoscenza approfondita delle caratteristiche neurologiche del soggetto sia nei suoi elementi deficitari che nelle sue componenti residue. Più nello specifico vengono utilizzati test e scale in grado di andare a sondare il grado di deterioramento, le capacità di linguaggio, di memoria, di percezione, di ragionamento logico. Il livello di deterioramento viene spesso misurato tramite il Mini Mental State Examination (MMSE), una scala in grado di individuare rapidamente la presenza di cedimenti di tipo cognitivo nelle capacità di orientamento spazio temporale, attenzione, memoria a breve e a lungo termine, linguaggio, prassia (Trabucchi M., 2002). A partire dal profilo ricavato dall’analisi neuropsicologica sarà possibile passare all’altra variabile in gioco nel programma di riabilitazione: il livello di intensità della stimolazione da somministrare. Dal momento che l’intensità della sollecitazione deve essere sempre collegata al grado di capacità residue del paziente ed essere di poco superiore rispetto al livello funzionale nel quale il soggetto si trova è di fondamentale importanza una conoscenza approfondita delle condizioni neurologiche e cognitive del paziente (Carbone G., Tonali A., 2007). Tale screening permetterà, dunque, al clinico di possedere una vera e propria “base-line” di partenza della situazione del paziente che gli consentirà, una volta quantificati i disturbi cognitivi e gli eventuali disturbi comportamentali, specificati nella loro tipologia e gravità, di implementare un programma di intervento nel quale gli obiettivi a breve, medio e lungo termine appariranno costruiti su misura del paziente. In maniera complementare ed in relazione agli obiettivi prefissati vengono stabiliti anche i tempi del trattamento e si procede, inoltre, al monitoraggio del raggiungimento degli obiettivi al fine di andare a testare l’efficacia del progetto elaborato con la possibilità, pertanto, di potere modificare in itinere il trattamento, sulla base delle esigenze riabilitative del paziente che emergeranno lungo l’iter terapeutico (Carbone G., Tonali A., 2007).
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