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9 Ottobre 2011Nel presente articolo e in quelli successivi, verrà descritto ed illustrato, il Conversazionalismo, un particolare approccio rivolto alle persone colpite da Alzheimer. Alcune delle informazioni sono tratte su gentile rilascio di intervista al Dott. Pietro Vigorelli, Milano 23 ottobre 2009.
“La malattia d’Alzheimer è conosciuta per lo più come malattia della memoria, io sottolineo un altro aspetto, noto in neuropsicologia come disturbo del linguaggio verbale. In particolare considero la malattia d’Alzheimer come malattia della parola, dove sono le parole ad essere malate e sono le parole che vanno medicate. Spesso, infatti, nel malato di AD le parole sono morte ed è nostro compito farle emergere e farle vivere.” Focalizzazione sulle parole ed in primo luogo sulla soggettività, sul mondo possibile di cui è portatore il paziente, costituiscono solo alcuni dei punti cardine del conversazionalismo, approccio arricchito e perfezionato dal Dottor Pietro Vigorelli, sulla scia del conversazionalismo di Giampaolo Lai.
Merito di tale approccio sta nel riportare ulteriormente alla ribalta l’aspetto prettamente psicologico e mentale della patologia, aspetto, questo, troppo spesso oscurato, negli ultimi decenni, dall’interesse manifestato verso l’area neurofisiologica della patologia. La tendenza a rinunciare ad una comprensione profonda della patologia in tutte le sue sfaccettature “è forse in parte anche il riflesso di un generale atteggiamento di scarso investimento in quella che viene considerata un’epoca della vita che confina col termine della vita stessa, in cui risaltano aspetti prevalentemente negativi quali la cristallizzazione e la rigidità dell’apparato psichico e l’impossibilità di accedere a risorse veramente trasformative.” (Bolis S., in Vigorelli, 2004). A tutto ciò si aggiunge una tendenza comune riconducibile a tutte le persone che ruotano attorno ad un soggetto colpito da una malattia degenerativa come l’Alzheimer: privare e non riconoscere nel soggetto colpito da AD un’identità completa, una storia, un passato, una vita, finendo col dimenticare dell’importanza dello sguardo dell’altro per sentirsi riconosciuto. “Quello che succede è che dal momento in cui a una persona viene data l’etichetta di malato di Alzheimer, da quel preciso momento, tutti, medici, psicologi, infermieri, familiari vedono in lui solo la malattia di Alzheimer e quindi riducono una persona, che al momento della diagnosi è ancora abbastanza ricca di emozioni, di parole, di ricordi, di ruoli sociali, alla monoidentità di malato di Alzheimer e questo è un evento che dobbiamo assolutamente contrastare cercando di continuare a vedere nella persona tutte le sue identità molteplici che in genere sono quelle di nonno, nonna, mamma, marito, di persona che sa cucinare, che sa svolgere numerose attività”. Il riconoscimento della propria soggettività e della propria identità, infatti, necessita del contatto con il mondo esterno; il mondo interno del soggetto si sviluppa parallelamente alla complessità delle sue relazioni esterne e dall’incontro intersoggettivo con l’altro, in una dinamica di mutuo riconoscimento. L’Alzheimer e le conseguenze che una patologia di tale genere comporta provocano un vero e proprio sgretolamento dell’identità del paziente (Vigorelli P., 2008), come se improvvisamente i numerosi tasselli che compongono il complesso “mosaico” della personalità del soggetto venissero a disperdersi. Deficit del linguaggio e della memoria, disorientamento spazio temporale e agnosia rappresentano in particolar modo i disturbi vissuti come maggiormente invalidanti per il paziente, il quale spesso, sopratutto nelle prime fasi della malattia, appare pienamente consapevole delle sue personali difficoltà ad avvalersi di un linguaggio fluente e di una memoria solida ed affidabile. Il livello di consapevolezza da parte del malato genera sensazioni di insicurezza e disorientamento tali da spingere il soggetto a restringere il proprio campo relazionale, di interessi e attività fino a sperimentare sentimenti di frustrazione accompagnati da mutacismo e depressione, “un circolo vizioso per cui il malato che manifesta disturbi del linguaggio tende a rinunciare all’uso della parola fino a quando questa si spegne totalmente.” ; ciò che viene definito danno aggiuntivo (Vigorelli P., 2008). Di riflesso il familiare si trova a dover far i conti con la costruzione di una nuova modalità relazionale col proprio congiunto, modalità che spesso assume i connotati di una vera e propria rinuncia di ricerca di un contatto autentico con il soggetto colpito da Alzheimer, il quale a causa della fragilità della personalità che lo caratterizza finisce con l’assolvere e con l’assumersi il ruolo di “demente”, spogliato, dunque delle sfaccettature, della mutevolezza e della complessità della sua identità. Secondo Vigorelli (2008), dunque, considerare l’identità del soggetto demente come unica e onnicomprensiva finisce con l’instaurare un eccesso di disabilità ed un ulteriore impoverimento della personalità del soggetto che ha già subito uno scacco dalla malattia, provocando un vero e proprio soffocamento delle capacità residue e al contempo un’accentuazione dei deficit causati dalla patologia. È come se improvvisamente il ponte che tiene unito “l’io ed il tu”, i mondi di due persone che fino a poco tempo prima della diagnosi si trovavano ad affrontare insieme gli eventi di vita quotidiana, franasse sotto il peso di una malattia che soffoca sia chi la patologia la vive in prima persona sia chi si prende cura della persona malata. La possibilità di ricostruire un ponte, una nuova forma di comunicazione, viene individuata dalla terapia conversazionale del malato Alzheimer, nelle parole.
Bibliografia
- Vigorelli P., La conversazione possibile con il malato, Franco Angeli, Milano, 2004.
- Vigorelli P., Alzheimer senza paura, manuale di aiuto per i familiari, perché parlare, come parlare, Rizzoli, Milano, 2008.
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