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«Siamo meno liberi di quanto crediamo».
Spesso capita che, da una generazione all’altra, si ripetano eventi traumatici o spiacevoli in modo inspiegabile e puntuale: incidenti, malattie, decessi, perdite economiche, problemi sul lavoro… Si osservano anche delle curiose coincidenze: stesso numero di figli, stesso intervallo di tempo tra le nascite, stesso numero dei matrimoni o dei divorzi, di aborti, suicidi, morti violente, figli naturali o adulterini…
Sembra quasi che i nostri antenati ci abbiano trasmesso un patrimonio genetico che va oltre gli aspetti biologici alla base dei tratti somatici familiari o della predisposizione nei confronti di una malattia. Il DNA sembrerebbe in grado di trasmettere anche dei contenuti emotivi, in particolar modo in seguito a eventi fortemente traumatici e talmente dolorosi da essere stati “messi da parte” e, quindi, non elaborati.
Indice contenuti
Modalità di trasmissione familiare
La trasmissione familiare può essere, infatti, di due tipi:
- la trasmissione intergenerazionale è quella pensata ed espressa tra nonni, genitori e figli e riguarda abitudini familiari, intese e modi di essere (es.: il primogenito maschio che, per tradizione, segue le orme professionali del padre e del nonno, oppure la decisione di fare il contrario e di distaccarsi dalle consuetudini del clan genealogico);
- la trasmissione transgenerazionale invece è non esplicitata e riguarda segreti, cose nascoste e talvolta interdette persino al pensiero (“impensate ed impensabili”), che si trasmettono ai discendenti senza essere metabolizzate. Così emergono traumi, malattie, manifestazioni somatiche che possono scomparire quando si parla, si piange o si grida, rielaborando ciò che è rimasto in sospeso.
Un dramma reale o simbolico – come la perdita di una persona cara, un incesto o l’internamento di un parente in un ospedale psichiatrico – scatena delle protezioni psichiche che permettono all’individuo di affrontare l’evento e di vivere al meglio il presente e il futuro. Il tempo di lutto varia, indicativamente, tra i sei e i dieci mesi, al di là dei quali si parla di “lutto bloccato”. Tale blocco può dipendere da molti fattori diversi: il rifiuto di credere alla realtà, la collera per l’accaduto, la forte tristezza, l’incapacità di darsi una spiegazione, di comprendere o di accettare la perdita subita. Quale che sia il fattore determinante, la conseguenza più comune tra le persone direttamente coinvolte è il tacito accordo di non parlare più del dramma, ma, come afferma Françoise Dolto, “ciò che viene taciuto alla prima generazione, la seconda lo porta nel suo corpo”.
Il genosociogramma: l’albero genealogico dei legami familiari
A partire dagli studi di Abraham e Boszormenyi-Nagy sul problema della trasmissione transgenerazionale dei conflitti non risolti (odio, desiderio di vendetta, ostilità e rivalità…), dei segreti, delle morti premature e delle scelte professionali, e ampliando la rappresentazione delle relazioni significative personali ideata da Moreno, Anne Ancelin Schützenberger utilizza il genosociogramma per fare luce sulla ragnatela invisibile che ci imprigiona e di cui siamo anche artefici: la ragnatela dei legami familiari.
Il genosociogramma è un albero genealogico che, oltre a riportare le informazioni di base (nomi, cognomi, luoghi, date, legami, eventi importanti, ecc.), mette in luce dinamiche familiari particolari, come “chi rimpiazza chi”, oppure “chi arriva quando un altro se ne va”, i favoriti e gli sfavoriti, le ripetizioni, le “ingiustizie”, le sincronicità e le coincidenze nelle date di nascita, di morte e di altre ricorrenze importanti.
Anche i “vuoti” relativi ad uno o più rami dell’albero genealogico, siano essi dovuti ad una dimenticanza o ad una mancanza di informazioni, sono significativi: essi riflettono il detto e il non-detto della famiglia. Le trasmissioni transgenerazionali problematiche sono, infatti, spesso collegate a segreti, ad argomenti tenuti nascosti e diventati tabù familiari, che si tramandano senza poter essere né pensati né elaborati.
Questo aspetto diventa più comprensibile con i concetti di “cripta” e di “fantasma” introdotti da Abraham e Török dopo aver lavorato con malati che dicevano di aver fatto qualcosa senza comprenderne la ragione, “agendo come se fossero un’altra persona”.
Gli Autori spiegano questo fenomeno utilizzando la metafora del fantasma di un antenato che “esce” dalla sua tomba, “chiusa male” a causa di una morte difficile da accettare, di un avvenimento vissuto come una vergogna dalla famiglia, o di una situazione difficile o vissuta malamente: qualcosa di imbarazzante, di equivoco o negativo per la mentalità dell’epoca, di cui non si parla per dimenticare. Un membro della famiglia, però, sembra aver conservato questo “non-detto” nella sua memoria come se fosse una “cripta” da cui, dopo una o due generazioni, il “fantasma” esce e agisce.
Nonostante il termine poco convenzionale, questo “fantasma” altro non è che una formazione dell’inconscio, mai consapevole, che risulta dal passaggio di un segreto inconfessabile, spesso traumatico o vergognoso (incesto, crimine, nascita illegittima, ecc.), dall’inconscio del genitore a quello del figlio. Il non-detto, il silenzio e l’evitamento, sono ciò che spinge il “fantasma” a far sentire la propria voce, affinché l’avvenimento non sia dimenticato.
La creazione dei “fantasmi” degli antenati
Ma cosa spinge una persona a ospitare in sé il “fantasma” di un suo antenato? Non si tratta di una scelta consapevole, ma di una lealtà familiare invisibile, cioè un’identificazione inconscia con un membro della famiglia, spesso tragicamente deceduto o scomparso.
Un caso particolare di “fantasma” è quello che Sellam descrive nella sindrome del Giacente, conseguenza di un lutto non elaborato a causa di una vita interrotta troppo rapidamente, di un decesso ingiustificato o ingiustificabile (nel caso in cui i più giovani vengono a mancare prima degli anziani: neonati, bambini, adolescenti, giovani adulti, aborti). Dalla sofferenza delle persone presenti al momento dei fatti nasce una memoria transgenerazionale e le sue ripercussioni potranno impregnare diverse generazioni, con intensità e risvolti differenti.
Il bambino “sostitutivo”
Il clan familiare memorizza il dramma tenendo traccia del nome del defunto, della sua data di nascita e di quella del decesso. Le persone implicate a livello conscio, cioè chi ha vissuto direttamente l’evento, possono reagire con una sorta di “resurrezione simbolica”: il concepimento di un bambino “sostitutivo”, che viene inconsciamente designato per assumere le conseguenze del dramma, materializzandole nel comportamento, nel corpo, nel suo mestiere, ecc.
Sellam ha, infatti, individuato alcuni segni clinici che caratterizzano questo “bambino sostitutivo-Giacente”, tra i principali troviamo: un modo di parlare monocorde e molto calmo; la tendenza all’immobilità (che mima il defunto) o, al contrario, una spiccata iperattività (per farlo rivivere simbolicamente); malattie caratterizzate da rigidità come le paralisi; spiccata preferenza per gli abiti scuri (segno di lutto) e gli ambienti silenziosi e poco luminosi; nomi di antenati o con significati particolari (es.: Renato = “nato di nuovo”), corrispondenza di date di nascita, di concepimento e di decesso.
Anche Anne Schützenberger sottolinea che l’inconscio ha buona memoria, ama i legami di famiglia e ricorda gli avvenimenti importanti del ciclo di vita attraverso la ripetizione di date o di età: ecco l’origine della “sindrome da anniversario”. Spesso, dopo un evento molto triste o drammatico, come una morte violenta di genitori ancora giovani, si osserva il riprodursi, qualche anno dopo, di un incidente, di una malattia fisica grave o di un episodio psicotico a carico dei figli, nel momento in cui arrivano all’età che aveva il genitore perduto.
Certe persone sono angosciate e depresse ogni anno, nello stesso periodo, senza sapere perché, senza ricordare che si tratta del periodo in cui cade l’anniversario della morte di una persona cara e senza poter stabilire relazioni consapevoli tra questi fatti ripetitivi.
Spesso, quando si concede alla persona la possibilità di conoscere e di esprimere il suo “segreto” e si dà voce al non-detto, si può arrivare ad una differenziazione tra l’amore, il rispetto, la lealtà familiare e l’identificazione con l’antenato (lealtà familiare invisibile), che spesso induce a “vivere la sua vita”, restando sempre in secondo piano, oppure a morire come lui.
Non si può voltare pagina se prima la pagina non è stata messa in evidenza e il contenuto non è stato metabolizzato attraverso un atto simbolico, portando a termine i compiti che erano rimasti irrisolti. Riprendendo le parole di una paziente della Schützenberger, “quando si vedono certe cose, fa male, ma quando se ne può parlare, ci si sente sollevati e va meglio”.
Approfondimenti
- Schützenberger A. A. (2004), La sindrome degli antenati, Roma: Di Renzo Editore.
- Sellam S. (2010), La sindrome del Giacente, Aubagne Cedex: Edizioni Quintessence.
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