“Tu menti sapendo di mentire!” dicevano i nonni ai nipotini, per enfatizzare il concetto di consapevolezza insito nella menzogna.
Ebbene, sulla base dell’esperienza acquisita come ricercatrice e delle collaborazioni con le istituzioni giudiziarie, Giuliana Mazzoni nel suo libro “Si può credere a un testimone?” ci spiega come si può mentire inconsapevolmente.
Partiamo dal principio, il contenuto di una testimonianza dipende dall’interazione tra il contenuto della memoria, il contenuto dell’evento al quale il testimone ha assistito, e i processi di decisione rispetto a ciò che il teste intende riportare.
L’attendibilità della testimonianza, cioè la corrispondenza tra quanto raccontato e quanto accaduto, è strettamente connessa all’accuratezza della memoria, cioè alla corrispondenza tra quanto è rappresentato in memoria e quanto accaduto realmente.
L’attendibilità quindi dipende dall’accuratezza del ricordo piuttosto che dalla quantità di elementi ricordati ed è soggetta all’influenza di vari fattori quali:
Dato il gran numero di variabili che possono influenzare una testimonianza, è evidente come sia quasi impossibile, nella realtà, ottenere una testimonianza completamente accurata. A questo proposito si utilizzano degli strumenti per ridurre al minimo tali influenze, come il confronto incrociato di resoconti testimoniali, il confronto tra le deposizioni di due persone che hanno assistito allo stesso evento oppure, soprattutto in America, si conferisce un peso importante al grado di sicurezza con cui viene rilasciata una testimonianza.
In ogni caso, la sentenza finale non si baserà solamente sui resoconti testimoniali, ma utilizzerà prove fattuali a supporto di eventuali testimonianze.
Fin dalla metà degli anni ’70 sono state condotte ricerche relative agli effetti di nuove informazioni o suggerimenti sulla memoria. Binet e Stern nel XX secolo hanno dimostrato come i bambini non possono essere considerati testimoni attendibili poiché con troppa facilità la loro memoria può essere modificata da interventi esterni. Sulla scia di queste ricerche Varendonk (1911) ha fornito un esempio di come attraverso domande particolari si può “pilotare” il ricordo; tali domande, in cui vengono inserite informazioni che non corrispondono alla realtà e che hanno una enorme influenza sulle risposte, sono chiamate misleading questions.
La tendenza a cedere ai suggerimenti contenuti in domande fuorvianti è stata chiamata da Gudjonsson (1984) interrogative suggestionability e fa riferimento alla facilità con cui un individuo adotta ed inserisce nel proprio ricordo contenuti non veri che facevano parte delle domande ricevute.
Un altro fenomeno che è stato evidenziato è la reazione a commenti negativi; Gudjonsson ha dimostrato che se il soggetto riceve un feedback negativo, egli tende a modificare la risposta anche nel caso la sua prima risposta sia corretta (risposta di cedimento “yield”).
In generale il fenomeno per il quale il suggerimento di informazioni porta a modificare il ricordo di un evento è stato chiamato post-event misinformation effect.
Un altro effetto comune nell’ambito delle testimonianze è la compiacenza, ossia la tendenza a dire ciò che l’altro vorrebbe sentire. In questo caso si tratta di una situazione ben diversa rispetto al mentire perché nel soggetto non c’è l’intenzione di danneggiare l’altro, anzi si potrebbe definire una forma di estrema collaborazione che, nonostante tutto, potrebbe apportare una modifica del ricordo originale.
Sfortunatamente fino ad oggi le modalità di interrogatorio si sono rivelate ben peggiori del semplice suggerimento di informazioni nelle domande.
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