“Il corpo di mia madre è sempre più rattrappito. E’ piccola. Una cosetta leggera, ossuta e dolorante (…). Ha conosciuto l’appello alla preghiera nel cinguettio di un passerotto (…). Mi scambia di nuovo per suo fratello maggiore, mi chiede notizie dei suoi bambini mescolando tutto. Attribuisce i miei a un altro dei suoi figli. Preferisco riderci sopra. Mio fratello la prende male e ha le lacrime agli occhi. Anch’io ho voglia di piangere, ma mi trattengo perché ha dei momenti di perfetta lucidità in cui la riconosco.” (Jelloun T.B., 2005).
La malattia di Alzheimer per i notevoli cambiamenti che comporta nell’identità del soggetto porta il familiare a sperimentare vissuti contrastanti che oscillano dal senso di impotenza, solitudine, incomprensione al senso di colpa a sentimenti di tristezza dovuti al fatto di non riconoscere più il proprio congiunto, di convivere con una persona completamente diversa da quella conosciuta anni prima (Vigorelli P., 2008).
Nell’arco dei primi sei mesi dal momento della diagnosi, i familiari ed in particolare il caregiver attraversano tre fasi: reazione emotiva, in cui si tenta di “gestire” e/o “scaricare” (anche fisicamente) l’ansia generata dall’evento stressante; elaborazione cognitiva, durante la quale si tenta di capire le “cause”, il “perché” della comparsa della malattia nella propria famiglia, si cercano le “colpe”, si prova a negare la malattia, a sminuirla sperando che passi; ristrutturazione, in quest’ultima fase i familiari arrivano ad una accettazione, sofferta e in parte rassegnata della malattia, dei limiti, con una forte attenzione alla valorizzazione delle risorse rimaste (Demichelis O., Piumetti P., Di Maria M., 2003). Le emozioni che accompagnano il familiare lungo tutto il percorso sono pertanto contraddittorie. Si assiste, infatti, alla presenza di sentimenti quali tenerezza, compassione, amore, affiancati da irritazione, rabbia, stanchezza e desiderio che l’esperienza possa finire al più presto con il relativo senso di colpa che emozioni di questo tipo generano. Rispetto al senso di colpa che può sperimentare il familiare, diverse possono essere le dinamiche che innescano tale vissuto: l’irritazione che può derivare a volte dall’assistenza quotidiana nei confronti del congiunto malato le bugie che si è costretti a dire per rassicurarlo. Inoltre il senso di colpa può essere diretto non al paziente ma nei confronti degli altri componenti della famiglia in quanto il caregiver (in genere la donna) che spesso avverte di trascurare gli altri membri del sistema familiare. Infine nel momento in cui l’assistenza domiciliare diventa impossibile, la decisione dell’istituzionalizzazione è un evento vissuto con sensi di colpa accompagnato dalla sensazione di avere messo in atto una modalità abbandoniche. La rabbia, inoltre, che porta il familiare a chiedersi il motivo di un evento di vita così alienante può essere accompagnata dal timore di ereditare la vulnerabilità alla malattia Quesiti e dubbi relativi all’esattezza o la “presunta perfezione” dei propri gesti di cura, infine, possono accompagnare il caregiver lungo tutto il percorso di sostegno al familiare e spesso soltanto tramite il supporto di operatori e personale esperto è possibile permettere al familiare di fare propria l’idea secondo la quale adattamento, flessibilità, empatia e “creatività” costituiscono elementi base per potere affrontare all’interno di un clima connotato da serenità l’assistenza al malato di Alzheimer (Carbone G., Tonali A., 2007).
Altre ricerche empiriche che si sono occupate di analizzare l’assunzione del ruolo di caregiver all’interno del processo familiare di cura, hanno messo in evidenza che elementi che caratterizzano la figura del caregiver possono essere sintetizzabili nella capacità di quest’ultimo di mediazione tra la famiglia e la rete sociale, nella capacità del familiare designato alla cura di gestire con sicurezza situazioni di stress e incertezza riuscendo dunque ad attivare elevate capacità di resilienza (Colozzi P., Donati P., 1995). La scelta del caregiver pertanto deriva da una specifica configurazione frutto degli intrecci intergenerazionali e del rapporto che questi instaurano con le dimensioni prettamente socio-culturali all’interno delle quali si manifesta la patologia del soggetto (Tamanza G., 1998). La malattia di Alzheimer esercita un impatto notevole sul funzionamento familiare, in quanto da un lato sollecita un incremento del lavoro di cura, dall’altro può provocare l’emergere di aspetti critici, cioè connessi a conflitti legati al passato della vita familiare ma anche aspetti che possono condurre ad un potenziamento delle risorse familiari come collaborazione e solidarietà tra i componenti della famiglia (Cigoli V., 2000). La fonte più difficilmente gestibile da parte dei familiari risiede nelle alterazioni di natura psichica che più direttamente si manifestano sul piano comportamentale e sociale. Più precisamente studi longitudinali (Chelsea C., Martison I., Muwaswes M., 1994) hanno messo in evidenza come la competenza di ruolo di caregiver sia associata al tipo di relazione che questi instaurano con il malato: i familiari che entrano in relazione con il paziente attraverso modalità simili a quelle utilizzate prima della malattia sono meno capaci di svolgere i compiti assistenziali rispetto a coloro che sono in grado nel corso del tempo di modificare il proprio atteggiamento, in base all’evoluzione della malattia. La difficoltà principale che ostacola nel caregiver la possibilità di utilizzare al meglio le proprie risorse risiede nel fatto che la presenza fisica di un malato di Alzheimer è accompagnata da una generale sensazione di estraneità emotiva e relazionale, che richiede un particolare atteggiamento da parte dei caregiver. I familiari che si occupano dell’anziano, inoltre, elaborano anche un significato della demenza a partire non solo dall’esperienza diretta ma anche dalle relazioni con gli operatori e da altre fonti di informazione. Per esempio si è visto che il familiare elabora una visione “catastrofica” della malattia se all’inizio della diagnosi e lungo tutto il percorso terapeutico gli vengono forniti elementi sulla demenza di carattere puramente informativo. Per realizzare un lavoro efficace con i familiari è necessario fornire ad essi un supporto psicologico, che possa permettere loro di comprendere il modo in cui vivono la relazione con il malato, di trovare uno spazio all’interno del quale potere esprimere le proprie emozioni circa timori, ansie, paure (Bruce E., Hodgson S., Schweitzer P., 2003). Tutto ciò fa inevitabilmente emergere l’importante ed il delicato ruolo svolto dagli operatori che gravitano attorno al paziente ed ai familiari. Il contatto costante con un paziente che manifesta una patologia così altamente alienante conduce l’operatore a sperimentare sentimenti di tristezza, frustrazione, impotenza e paura di essere, un giorno, vittime della stessa malattia (Genevay B., Katz S.R., 1990). Talora comportamenti difficili come il vagabondaggio, l’aggressività, le condotte sessuali incongrue o richieste di assistenza nel nutrimento e nell’igiene personale, mettono a dura prova la resistenza dell’operatore, la percezione della propria competenza e professionalità, la convinzione che il proprio operato sia utile, rischiando, pertanto, di cadere vittima della sindrome di burn-out. Secondo Maslach (1992), il burn-out è un insieme di manifestazioni psicologiche e comportamentali che può insorgere in operatori che lavorano a contatto con la gente e che possono essere raggruppate in tre componenti: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale. L’esaurimento emotivo consiste nel sentimento di essere emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, per effetto di un inaridimento emotivo del rapporto con gli altri. La personalizzazione si presenta come un atteggiamento di allontanamento e di rifiuto (risposte comportamentali negative e sgarbate) nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il servizio o la cura. La ridotta realizzazione personale riguarda la percezione della propria inadeguatezza al lavoro, la caduta dell’’autostima ed il sentimento di insuccesso nel proprio lavoro. Il soggetto colpito da burn-out manifesta sintomi aspecifici: irrequietezza, senso di stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo, insonnia; sintomi somatici quali tachicardia, cefalee, nausea; sintomi psicologici come depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia e risentimento, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, sensazione di immobilismo, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti (Faretto G., 1992). Da altri studi l’insorgenza della sindrome di burn-out negli operatori sanitari segue generalmente quattro fasi. La prima fase (entusiasmo idealistico) è caratterizzata dalle motivazioni che hanno indotto gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale: ovvero motivazioni consapevoli (migliorare il mondo e se stessi, sicurezza di impiego, svolgere un lavoro meno manuale e di maggiore prestigio) e motivazioni inconsce (desiderio di approfondire la conoscenza di sé e di esercitare una forma di potere o di controllo sugli altri); tali motivazioni sono spesso accompagnate da aspettative di onnipotenza, di soluzioni semplici, di successo generalizzato e immediato, di apprezzamento, di miglioramento del proprio status e altre ancora. Nella seconda fase (stagnazione) l’operatore continua a lavorare ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni. Si passa così da un superinvestimento iniziale a un graduale disimpegno. La fase più critica del burn-out è la terza (frustrazione). Il pensiero dominante dell’operatore è di non essere più in grado di aiutare alcuno, con profonda sensazione di inutilità e di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell’utenza. Il soggetto frustrato può assumere atteggiamenti aggressivi (verso se stesso o verso gli altri) e spesso mette in atto comportamenti di fuga quali allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate, frequenti assenze per malattia. Il graduale disimpegno emozionale conseguente alla frustrazione, con passaggio dalla empatia all’apatia, costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste a una vera e propria morte professionale (Del Rio G., 1990). Un trattamento, un intervento riabilitativo di sostegno al paziente e al familiare coinvolge pertanto l’operatore nella sua totalità, nella sua identità professionale e umana e l’efficacia di un progetto di recupero non può prescindere dal considerare tutti gli attori coinvolti nel programma terapeutico. Solo un progetto pensato e ideato nell’ottica della multidimensionalità può condurre a quello che Vigorelli (2008) definisce “punto di incontro felice”, un punto nel quale la “voce del paziente, del familiare e del curante possano esprimersi e trovare ascolto” (Vigorelli P., 2008).
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