Mia madre è terra di nessuno, raccontò ad un certo punto con voce rotta la figlia, riconoscendo a se stessa pesanti limiti e responsabilità per non aver saputo stabilire un’alleanza con il personale delle case di riposo, optando per un rientro al domicilio della madre, che però nel frattempo non era più governabile con le risorse familiari disponibili” (Quaia L., 2006).
La metafora del paziente con Alzheimer come “terra di nessuno” rimanda all’immagine di una landa abbandonata e incolta nella quale risulta inattuabile ogni possibilità di recupero. Lo sconforto rappresenta,spesso, lo stato d’animo predominante sperimentato dai familiari nel momento in cui non vengono pensati e costruiti per loro e per il familiare colpito da Alzheimer interventi di sostegno in grado di incrementare e potenziare le risorse del paziente e dell’ambiente nel quale è inserito.
Per tale motivo, gli sviluppi ottenuti in campo farmacologico e nel settore prettamente medico biologico, si sono dovuti sempre più accostare ad un dato di fatto che testimonia quanto “i progressi risulterebbero inutili se non si tenesse sempre in mente che la malattia di Alzheimer si presenta come una malattia a tre dimensioni: il malato, la famiglia e l’operatore. L’assistenza non deve servire soltanto a compensare la disabilità indotta dalla malattia, deve anche contribuire al mantenimento dell’autostima da parte di chi ne è affetto.” (Porro G. S., 2007, cit. in Vigorelli P., 2008). I trattamenti non farmacologici si pongono pertanto l’obiettivo di abbracciare e comprendere non solo il paziente ma anche la famiglia (in particolar modo il caregiver di riferimento) e l’ambiente domestico. Lungo tutto il loro iter paziente e famiglia necessitano, dunque, di un supporto completo che non si limiti ad una fase precisa della malattia ma che, al contrario, attraverso la sinergia di diverse figure professionali, generi programmi terapeutici e riabilitativi adeguati. Come afferma Vigorelli “E’ necessario superare il concetto di riabilitazione Alzheimer; bisogna pensare a nuovi obiettivi e nuovi metodi” (Vigorelli P., 2008). Operando un vero e proprio viraggio da una concezione prettamente funzionale di riabilitazione fondata sul recupero e sulla prestazione, ad una più “esistenziale” (Vigorelli P., 2008) è possibile far appello alle capacità di resilienza del soggetto, della famiglia e del contesto nel quale il soggetto è inserito. Gli approcci e le modalità attuali di intervento, vedono pertanto l’affiancamento ai trattamenti tipicamente farmacologici con altre tipologie di intervento quali: approccio conversazionale e capacitante, riabilitazione cognitiva, comportamentale, psicosociale, psico-educazionale e psicoterapeutica. Per quanto concerne i pazienti, gli attuali studi compiuti sulle sindromi demenziali hanno permesso di identificare almeno in parte i meccanismi patognomici della malattia e di individuare nel trattamento farmacologico degli anticolinestarasici uno dei trattamenti elettivi volti al rallentamento della progressione dei disturbi della memoria e comportamentali. Parallelamente, è stata anche superata l’idea secondo la quale le caratteristiche intrinseche e progressive della sindrome di Alzheimer rendesse refrattaria tale patologia ad ogni tipo di intervento riabilitativo. Più nello specifico la scoperta che ha portato a mettere in evidenza che le alterazioni provocate dall’Alzheimer coinvolgano alcune abilità, lasciandone intatte altre, in particolar modo nelle prime fasi, ha fornito un notevole impulso all’applicazione dei principi base della riabilitazione e degli interventi non farmacologici destinati agli aspetti cognitivi, affettivi e comportamentali (Bianchin L., Faggian S., 2006). Il principale obiettivo che in generale tali metodologie di intervento si pongono consiste nel contribuire all’adattamento e alla riduzione dell’eccesso di disabilità, ad aumentare le strategie di compensazione e a mantenere elevati i livelli di autonomia, contribuendo, pertanto, a migliorare la qualità della vita del paziente e di riflesso della sua famiglia (Carbone G., Tonali A.,2007). E’ all’interno di questo settore che si inserisce la stimolazione cognitiva e comportamentale la quale avvalendosi di un programma riabilitativo e di un corollario di tecniche atte a stimolare le abilità residue attraverso periodici e ripetuti allenamenti, rende possibile il rallentamento della degenerazione della malattia (Bianchin L., Faggian S., 2006). Nei prossimi articoli verranno descritti nel dettaglio alcuni dei più importanti trattamenti non farmacologici.
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